Da decenni, l’agricoltura intensiva si è imposta come modello dominante, con l’obiettivo principale di aumentare le rese. Sebbene efficace nel breve periodo, questo approccio compromette la resilienza e la sostenibilità dei sistemi agricoli di fronte a eventi climatici estremi e malattie, con gravi conseguenze sulla biodiversità. Eppure, senza vita nei campi, nessuna coltura può prosperare a lungo termine. Nutrire l’umanità non dovrebbe significare affamare il vivente. E se cambiassimo rotta?
A lungo considerato una buona pratica agricola, l’aratura profonda sconvolge l’equilibrio naturale del suolo. Smuovendo gli strati più profondi, i microrganismi che vivono al buio vengono esposti all’aria e muoiono. Questa strage arricchisce temporaneamente il suolo, ma in realtà lo lascia morto. Un’altra conseguenza dannosa è il rilascio del carbonio immagazzinato nel suolo, che accelera il riscaldamento globale.
A questo si aggiungono i ripetuti passaggi di macchinari pesanti, che compattano il terreno e distruggono le gallerie degli insetti. Il risultato: un suolo asfissiato, incapace di assorbire correttamente l’acqua, dove le piante faticano a crescere.
Immaginate quei campi di mais infiniti, o ettari di grano senza siepi né boschetti. Non è un incubo: è la nostra realtà. La scelta della monocoltura industriale ha privilegiato la redditività immediata, a scapito della biodiversità. La scomparsa della varietà delle specie coltivate ha conseguenze pesanti su insetti, uccelli e ovviamente sul suolo. Perché? Perché un terreno sottoposto sempre alle stesse radici si impoverisce. Perde nutrienti, vitalità e la capacità di rigenerarsi naturalmente grazie alla diversità delle specie vegetali.
Il risultato? Gli agricoltori compensano la povertà del suolo con quantità crescenti di fertilizzanti chimici. Si innesca un circolo vizioso: parassiti e malattie si diffondono rapidamente, poiché i loro predatori naturali sono assenti e le colture indebolite sono facili bersagli. Questo porta a un uso ancora maggiore di pesticidi e fungicidi, che affaticano ulteriormente la terra e rendono le piante sempre più vulnerabili.
Gli erbicidi, usati per “pulire” il campo intorno alle colture, eliminano tutto ciò che incontrano. Il glifosato e i suoi derivati uccidono tutte le piante considerate “infestanti”: tarassaco, trifoglio, ortica… Eppure queste piante sono fondamentali per nutrire gli impollinatori. I nostri campi si ritrovano così circondati da un deserto vegetale e animale.
Come se non bastasse, l’uso massiccio di pesticidi peggiora ulteriormente la situazione, provocando la morte di moltissimi impollinatori. È il caso dei neonicotinoidi, estremamente efficaci: usati come rivestimento dei semi (soprattutto per mais, barbabietola e colza), penetrano in tutta la pianta, rendendo superflui ulteriori trattamenti durante il ciclo colturale. Sembra pratico? In realtà no. Questi prodotti contaminano l’intera pianta, compresi polline e nettare. Il risultato? Le api si avvelenano lentamente, perdono l’orientamento, diventano sterili o non riescono più a tornare all’alveare e muoiono. Una catastrofe invisibile, ma reale, che minaccia direttamente la nostra capacità di produrre frutta e verdura.
Di fronte a questo circolo vizioso, migliaia di agricoltori e agricoltrici stanno già costruendo strade alternative, più rispettose della vita e sostenibili anche dal punto di vista economico.
Situata nell’Eure, in Francia, la fattoria del Bec Hellouin è un punto di riferimento perché unisce agroecologia, permacultura e sobrietà energetica. Dal 2003 produce ortaggi tutto l’anno su piccole superfici, sfruttando i servizi offerti dalla natura (pacciamatura, coltivazione a lasagna, consociazioni vegetali…). Nel 2011, uno studio dell’INRA ha dimostrato che questa azienda agricola è più redditizia per ettaro di molte aziende convenzionali. Dal 2015, ha sistematizzato le proprie conoscenze in orticoltura biologica, dando vita al concetto di micro-fattoria in permacultura, ora in forte espansione in Europa e nel mondo.
La Finca La Junquera, nella regione di Murcia, nel sud della Spagna, è un esempio ispiratore di transizione verso l’agricoltura rigenerativa. Di fronte a suoli degradati e a un clima arido, l’azienda ha adottato dal 2015 pratiche volte a ripristinare la fertilità del suolo e a rafforzare la resilienza climatica. L’uso di varietà antiche di cereali (più resistenti), insieme a tecniche come compostaggio, pacciamatura e rotazione delle colture, ha permesso di stabilizzare i raccolti e ridurre l’erosione del suolo.
Gestita da Alfred Grand, la Grand Farm nei pressi di Vienna si estende su 90 ettari e combina agroforestazione, orticoltura e cura del suolo (inclusa la produzione di vermicompost). È anche un centro di ricerca, in collaborazione con università, per immaginare l’agricoltura del futuro. Nel 2024 ha ottenuto la certificazione “Regenerative Organic Certified”, la prima in Europa.
Cambiare modello agricolo è urgente. Non solo per salvaguardare la biodiversità, ma anche per garantire un’alimentazione sostenibile, suoli vivi e campagne resilienti al cambiamento climatico. Le soluzioni ci sono. Spesso sono locali, talvolta sperimentali, ma condividono tutte lo stesso principio: rimettere il vivente al centro delle pratiche agricole.
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