Etichette alimentari: alzi la mano chi le legge davvero!
Quando andiamo a fare la spesa abbiamo spesso il tempo contato: è uno spazio ritagliato tra mille altri impegni della giornata e il primo obiettivo è non dimenticare nulla di quello che ci serve. Ed è così che l’attenzione che riusciamo a dedicare alla lettura delle etichette dei prodotti che mettiamo nel carrello è minima.
Oltretutto in certi casi il tutto è complicato da termini e informazioni di difficile interpretazione se non si è addetti ai lavori. Alla fine ci ritroviamo in dispensa cibi di cui sospettiamo una scarsa qualità o ci illudiamo nella consolante promessa di scritte come “naturale” o “proprio come una volta”.
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Non è necessario perdere ore nella lettura attenta di tutti i dettagli delle etichette alimentari, né frequentare un corso di chimica apposta. Possiamo però far cadere un po’ più spesso il nostro occhio su alcuni punti salienti dell’etichetta che possono aiutarci nella scelta, facendoci spendere meglio e preservare salute.
Come per le locandine dei film al cinema, le confezioni dei prodotti alimentari sono realizzate da persone che probabilmente hanno dedicato studi universitari per imparare tecniche di comunicazione e persuasione. Sono disegnate per stimolare le nostre emozioni, esaltando solo le caratteristiche del prodotto che possono convincerci a comprarlo.
Un esempio su tutti le confezioni delle uova che troviamo al supermercato: paesaggi bucolici a perdita d’occhio, etichette con galline a cui manca solo un Cartier al polso, tanto sono floride e felici. Tutto ricorda il nostro immaginario della fattoria paradisiaca, dove i prodotti della natura non possono che essere di qualità eccelsa. E allora sì, compriamo!
Ma se veramente vogliamo scegliere l’uovo in base alle condizioni di vita della mamma gallina, leggiamo la scritta che ci dice se ha vissuto in una gabbia-scatola o almeno le sue zampe hanno toccato il suolo.
Basta anche solo il primo numero del codice che troviamo stampato sull’uovo stesso: “0” biologico, “1” all’aperto, “2” a terra, “3” in gabbia.
Facciamo una prova a casa: prendiamo la confezione di un prodotto che compriamo spesso perché ci piace. Sediamoci un momento di fronte, osserviamolo e lasciamo che la nostra mente si fermi sui dettagli che la attirano immediatamente, senza analizzarlo razionalmente. È sopraggiunto un ricordo? Magari una situazione di quando eravamo bambini? O ci è venuto in mente un quadro “perfetto” in cui sarebbe bello consumarlo? Per caso ricordiamo una lieve delusione dopo il primo assaggio in passato ma continuiamo a comprarlo? Allora quando lo acquistiamo non stiamo realmente scegliendo il prodotto, ma un ricordo o una sensazione che questo ci evoca.
Paghiamo un desiderio che la copertina patinata della confezione ci promette di esaudire.
Fondamentale, nel leggere le etichette alimentari, dare almeno uno sguardo veloce all’elenco degli ingredienti. Sulla confezione del prodotto a volte sono esaltati gli ingredienti migliori, ma nella ricetta questi possono perdersi un una miriade di molecole chimiche, tra additivi, conservanti, addensanti, o anche solo grassi e zuccheri di più tipi. Di quelli che la nostra nonna, quella che l’industria alimentare spesso chiama in causa, non solo non aggiungerebbe mai, ma che neanche ha mai sentito nominare.
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Guardiamo la lunghezza dell’elenco degli ingredienti: tranne per alcuni prodotti con formule complesse sarebbe preferibile se gli ingredienti fossero sempre pochi; e guardiamo in che ordine sono per farci un’idea delle proporzioni della ricetta (per legge è obbligatorio un ordine di quantità decrescente nell’elenco ingredienti).
Così potremo scoprire persino se nel pesto c’è lo zucchero (eh sì, a volte c’è).
Il Quid (Quantitative Ingredient Declaration) è un’altra cosa che può aiutarci nel confronto e nella scelta dei prodotti: se un ingrediente (ad esempio le uova o le nocciole) è citato nel nome del prodotto, o vantato sul fronte della confezione in testo (frollini “alla panna”) o immagine (un bel tuorlo lucente sulla scatola delle tagliatelle), è obbligatorio specificarne la quantità negli ingredienti.
Così, se compriamo un risotto al tartufo in busta, possiamo facilmente capire dall’etichetta se di tartufo ce n’è uno 0,05% o un 10%.
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Altro obbligo di legge è riportare la presenza di allergeni (es lattosio, glutine, senape, sesamo…) in evidenza nell’elenco ingredienti: può essere fatto con colore diverso, con scritte più grandi o in grassetto, ma deve saltare all’occhio a una lettura anche poco attenta.
Questo può aiutarci a fare scelte veloci e senza errori se siamo noi stessi allergici a qualcosa, o anche solo se abbiamo invitato a cena degli amici che sappiamo allergici e stiamo scegliendo i cibi che porteremo in tavola.
Il Ministero della Salute si è battuto in Europa dal 2015 e finalmente con il D. lgs 145, 15/09/17 è stato nuovamente reintrodotto l’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta per ciò che viene prodotto in Italia, obbligo che era decaduto con i precedenti Regolamenti europei.
Come consumatori, attraverso le etichette alimentari possiamo capire dove è stato assemblato ciò che mangiamo. Cosa non da poco, se vogliamo dare preferenza a produttori locali. Inoltre si tratta una garanzia maggiore per la salute, perché in caso di allerta le Autorità possono immediatamente sapere, leggendo l’etichetta del prodotto in questione, dove dirigersi per verificare cosa sia accaduto, senza dover passare attraverso fasi intermedie di contatto con uffici vari dell’azienda (questo vale soprattutto per realtà multinazionali).
Un mare di informazioni tutto in un rettangolino di carta: usiamole a nostro vantaggio!
Lilia Garnero è biologa nutrizionista, operatrice Shiatsu professionale ed ideatrice del Metodo NuSh® per l’integrazione del percorso nutrizionale in un ambito di riequilibrio energetico.
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