Nutrire il pianeta: a tavola con i cacciatori raccoglitori

di Fiore Longo

 
La prima volta che ne ho sentito parlare ero a cena con una sconosciuta a Bordeaux.

Ci eravamo incontrate in un ostello e avevamo deciso di passare la serata insieme.

Non appena il cameriere ci portò il pane, lo spezzai per placare la mia crisi d’astinenza da carboidrati, e gliene offrii un boccone.
La sua risposta mi lasciò di stucco: “Non mangio pane – disse – né nessun altro tipo di cereale o prodotto derivato dalla rivoluzione agricola”.

Il mio stupore subì un’ulteriore impennata non appena il cameriere prese l’ordinazione.
Lei chiese la tartare (eravamo in Francia: fin lì tutto normale) perché, mi spiegò, mangiava solo carne cruda.

Avevo studiato a Parigi, ed ero quindi abituata alle tendenze eco-friendly dei bobo e simpatizzavo con l’amore per i gatti, gli orti in città, gli atelier di detersivi artigianali e la spesa bio-equo.

Ma le sue scelte mi sembravano davvero troppo drastiche.
“Perché” osai chiederle con titubanza?

E lei, senza scomporsi, come fosse la cosa più naturale al mondo, rispose:
“Seguo la dieta del paleolitico, mangio quello che mangerebbero i cacciatori raccoglitori”.

 

In quanto antropologa, l’associazione semantica tra “paleolitico” e “cacciatori raccoglitori” mi urtò non poco.

Ma cercai di approfondire con la speranza che questa nuova tendenza alimentare potesse in qualche modo giovare all’immagine spesso scientificamente scorretta che la nostra società ha di questi popoli.

I nostri antenati vivevano certamente anch’essi di caccia e raccolta, ma le decine di società che oggi, in tutto il globo, basano la propria sussistenza sulle risorse prelevate direttamente dalla natura, ovvero i cacciatori-raccoglitori contemporanei, non possono certo essere equiparati né ai nostri né ai loro progenitori.

Poco dopo, mi informò che tra i vip seguaci della famosa dieta del paleolitico, o “dieta dell’uomo delle caverne” (caveman diet) come preferiscono chiamarla negli Stati Uniti, c’era anche Jeb Bush, fratello minore dell’ex presidente americano George, non certo noto per apprezzare il relativismo culturale.

Ma cominciamo con lo sgombrare il campo da alcuni possibili fraintendimenti.

Considerare i cacciatori raccoglitori di oggi come i residui viventi dell’uomo del paleolitico è un grossolano errore da tempo smascherato dagli studi antropologici.

Tutti i popoli sono “nella storia”, e sono quindi soggetti a trasformazioni e cambiamenti continui.

Fino a 12.000 anni fa, l’umanità intera viveva principalmente – ma non solo! – di caccia e raccolta (come suggeriscono infatti numerosi studi, alcune forme di addomesticamento della natura erano presenti anche prima della cosiddetta “rivoluzione agricola”).

Tuttavia, questo non autorizza a pensare che lo stile di vita dei cacciatori raccoglitori contemporanei appartenga al passato e che sia rimasto pressoché immutato dall’alba dell’umanità fino ai nostri giorni.

 

Al contrario, le loro tecniche hanno continuato a raffinarsi e perfezionarsi nel corso del tempo, adattandosi ai cambiamenti e alle nuove sfide socio-ambientali. E non avrebbe potuto essere diversamente, pena l’estinzione.

Si pensa addirittura che alcuni popoli, un tempo agricoltori stanziali, siano diventati cacciatori nomadi solo in epoche più recenti, per sopravvivere meglio all’invasione delle loro terre da parte degli esterni.

Quasi la totalità dei cacciatori raccoglitori sono oggi in contatto con altre culture e con le società industrializzate, da cui hanno via via preso in prestito, in misura molto variabile, sapere, strumenti, beni materiali, esattamente come abbiamo fatto noi nei loro confronti (basti pensare all’aspirina, sviluppata dalla corteccia del salice bianco che gli Indiani facevano bollire per trattare il mal di testa, o all’annatto degli Indiani amazzonici, divenuto oggi il colorante rosso-giallo più famoso al mondo usato nei rossetti, nello zafferano, nei popcorn e nei formaggi).

Alcuni utilizzano internet regolarmente.
Eppure restano determinati a mantenere i loro stili di vita dimostrando di essere ben consapevoli di quello che sono: non reperti archeologici, bensì solo uno dei tanti modi possibili di vivere; una delle infinite strade che l’umanità ha intrapreso.

Al di là di mode, pregiudizi o idealizzazioni, la dieta dei popoli cacciatori raccoglitori è oggi riconosciuta dagli esperti come una delle più equilibrate al mondo.

Ricca di frutta, verdura, carne di selvaggina e pesce, si basa principalmente sul prelievo di risorse spontanee dall’ambiente, anche se è integrata in alcuni casi dalla coltivazione di piccoli orti.

I cacciatori raccoglitori consumano molti meno grassi rispetto alla maggior parte degli abitanti del pianeta e, in generale, i loro alimenti sono poverissimi di grassi saturi e di sodio.

Anche se la quantità di carboidrati nelle loro diete è quasi pari alla nostra, deriva principalmente da frutta e verdura.
Farina e zucchero raffinato sono inesistenti (usano solo miele selvatico).
E consumano molte più fibre di qualsiasi società occidentale.

Nessun scompenso nemmeno tra i ghiacci: le risorse alimentari di popoli come gli Inuit o i Gwich’in dell’Artico, soprattutto beluga e caribù, sono fonte straordinaria di antiossidanti, omega-3, proteine e micronutrienti (vitamina A, D, C, ferro, zinco), che garantiscono una perfetta salute anche in mancanza di frutta e vegetali.

La carne di caribù ha il doppio di proteine della carne in scatola, un decimo di grassi saturi, il triplo di vitamina C e nove volte più ferro.

 

Nella maggior parte dei casi, le economie dei cacciatori-raccoglitori sono anche sistemi ad alta efficienza perché poche ore di lavoro al giorno bastano a soddisfare i bisogni alimentari di tutta la comunità.

I Boscimani !Kung del deserto del Kalahari dedicano solo 3-4 ore alle attività quotidiane di caccia e raccolta, ma hanno una dieta ricca e completa che permettere loro di garantirsi, e consumare, in media, 2140 Kcal giornaliere.

Apprezzano in particolare il mongongo, un frutto simile alla mela che contiene una noce molto nutriente: 100 gr di polpa hanno 641 Kcal, il doppio rispetto a un etto di carne.

Ma caccia e raccolta non sono solo tecniche di sussistenza, modalità per procurarsi il cibo necessario alla sopravvivenza. Costituiscono innanzitutto uno stile di vita sorretto da una conoscenza millenaria e enciclopedica del mondo naturale, fondato su valori di equilibrio, condivisione e uguaglianza.

I cacciatori raccoglitori conoscono intimamente tutte le risorse disponibili nei loro territori – ogni pianta, ogni animale e ogni minerale – e hanno imparato a sfruttarle a fondo senza rischiare di esaurirle.

I “Pigmei” Baka dell’Africa centrale mangiano più di 10 tipi diversi di igname.
Lasciano parte della radice nel terreno e in questo modo contribuiscono a diffonderlo nella foresta, richiamando nell’area elefanti e cinghiali, che ne vanno ghiotti.

Gli Aché del Paraguay vantano una delle diete più variegate e complete che esistano. Cacciano 33 specie di mammiferi e mangiano più di 10 specie di rettili e anfibi, oltre a 15 specie di pesci e uccelli, 5 tipi di insetti, 10 tipi di larve e almeno 14 tipi di miele.

Nell’universo dei cacciatori raccoglitori non c’è opposizione tra società e natura.

Il mondo è uno solo.
E se dalla terra l’uomo riceve ciò di cui ha bisogno per vivere, il cibo è un dono che serve non solo a nutrire il corpo, ma anche lo spirito.

Alla natura il cacciatore raccoglitore deve la sua vita, per cui proteggerla e rispettarla è il suo compito, a cui viene educato fin dalla tenera età.

I “Pigmei” Baka imparano sin da piccoli a non eccedere nella caccia degli animali della foresta: “Quando troviamo una femmina con il suo piccolo, non possiamo ucciderla” ci spiegano.
E, altrettanto importante, tendono a utilizzare tutte le parti degli animali cacciati, per non sprecare niente.
Con le pelli delle prede di cui si cibano, i cacciatori raccoglitori possono fare abiti e tende, con il grasso carburante e unguenti, con le ossa utensili e ornamenti e sculture.

 

Purtroppo, il furto della terra e delle risorse subito da molti popoli indigeni sta riducendo sempre più il loro accesso a questa ricchezza alimentare e materiale.

Tuttavia, I dati scientifici a disposizione dimostrano che quando possono mantenere il controllo della loro alimentazione e del loro stile di vita sulle loro terre, i popoli cacciatori-raccoglitori godono di ottima salute.

I loro valori di colesterolo e pressione sanguigna sono molto più bassi rispetto ai nostri. Obesità, diabete e ipertensione sono sconosciuti.

Al contrario, come denuncia “Il progresso può uccidere”, uno studio pubblicato dal movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni Survival International, quando vengono sfrattati dalle terre natali o si vedono negare o limitare l’accesso alle loro risorse nel nome del “progresso” e dello “sviluppo”, benessere e salute precipitano rapidamente.

Il passaggio forzato alla vita sedentaria e alla dipendenza dai cibi industriali risulta spesso disastroso, sia fisicamente sia psicologicamente, fino a portarli al suicidio.

Di fronte al proliferare delle cosiddette malattie psico-fisiche del benessere, le culture alimentari dei cacciatori raccoglitori ci forniscono, se non un’alternativa, almeno materiale di riflessione.

La distruzione di popoli e ambienti alimentata dalle nostre economie, fondate su uno sfruttamento insostenibile e iniquo delle risorse, e sulla loro crescente sofisticazione, sono fonte di preoccupazione crescente in tutto il mondo.

Ciò che mangiamo è anche ciò che siamo. Ma soprattutto è anche ciò che facciamo, perché è un indicatore della nostra relazione con la nostra fonte di nutrimento: la natura.

 

A chi pretende di giustificare il furto di terra e la violazioni del diritto all’autodeterminazione dei cacciatori raccoglitori affermando che il loro stile di vita oggi non sia più sostenibile data l’impellente necessità di sfamare una popolazione mondiale in costante crescita, si potrebbe rispondere in molti modi diversi.

Ma una obiezione si impone subito spontanea: la maggior parte delle risorse del pianeta (l’80%) vanno a meno di un terzo dei paesi del mondo.

Il 12% della popolazione mondiale, che vive in Nord America e nell’Europa Occidentale, rappresenta da sola il 60% della spesa (World Watch Institute: 2011).

Oltre a questa iniqua distribuzione delle risorse, ogni anno, circa un terzo della produzione mondiale di cibo destinata al consumo umano si perde o si spreca lungo la filiera alimentare e soprattutto a livello domestico (FAO 2011).

L’estensione di suolo agricolo necessario per produrre il cibo sprecato ogni anno nel mondo è pari al 30% della superficie agricola disponibile a livello globale.

Il cibo sprecato ogni anno nel mondo è responsabile anche dell’immissione in atmosfera di circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente.
Se lo spreco alimentare fosse un paese, sarebbe il terzo emettitore mondiale dopo USA e Cina.

Alla luce di questi dati, non c’è dubbio che al mondo non c’è più terra a sufficienza per tutti, ma è altrettanto vero che la pressione sulla terra è alimentata principalmente dagli eccessi di consumi e sprechi della minoranza dei paesi ricchi.

E allora perché le poche società di cacciatori raccoglitori rimaste dovrebbero pagarne il prezzo perdendo le loro vite e le loro terre?

I cacciatori raccoglitori sanno come mantenersi in salute e come garantirsi una vita piena e gratificante prelevando dall’ambiente solo ciò che serve, proteggendo la natura e mantenendosi in equilibrio con tutti gli esseri viventi che la abitano.

A questo punto la domanda sorge spontanea: “Cavernicoli” chi?

 


 
© Fiore Longo
Fiore Longo è un’antropologa culturale.
Lavora per Survival international e si occupa di nuovi modelli di conservazione ambientale che rispettino i diritti dei popoli indigeni. Svolge ricerca in India, dove segue il caso delle tribù nelle riserve delle tigri.
Twitter: @LongoFiore

 

Survival – Il progresso può uccidere

Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni.
Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro.

Nel 2016 Survival ha pubblicato il rapporto “Il progresso può uccidere”, che dà il titolo all’omonima campagna. Lo studio denuncia che i popoli indigeni non sono mai stati distrutti dalla mancanza di “progresso” e di “sviluppo”, bensì dal furto della loro terra, immancabilmente giustificato da vecchie ideologie razziste su una loro presunta arretratezza.

La qualità della loro vita – decisamente migliore di quella di milioni di cittadini impoveriti e marginalizzati da una disuguaglianza crescente – precipita rapidamente, mentre salgono i livelli di depressione, dipendenza e suicidio.

Rispettare i loro diritti territoriali è di gran lunga il modo migliore per garantire il loro benessere e il loro futuro.

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