Sono un detective privato. I nomi, i fatti, le date, le persone scomparse… grazie al mio infallibile fiuto sono capace di scoprire qualsiasi cosa. I soldi però non hanno nessun odore. Ragion per cui offro il mio naso a chi mi paga di più, e da queste parti mi chiamano La Mangusta.
Una mattina i ragazzi dell’Alveare che dice Si! bussarono alla mia porta offrendomi una missione: scoprire cosa si nasconde dietro l’agricoltura Bio e, soprattutto, chi ne detta tutte le regole.
Domandai loro: « Potete pagarmi? »
Mi risposero: « Due chilogrammi di insalata, in cassetta »
Accettai subito l’inchiesta.
Conosco a memoria tutti i fatti sulla mafia napoletana, le gangs di El Paso e sulla Yakuza, ma per quanto riguarda l’agricoltura bio parto proprio da zero. C’è anche da dire che per quanto riguarda l’argomento i miei contatti si sono rivelati abbastanza inutili… « Il bio non esiste… » , « Tutte cavolate » , « E’ uno specchietto per le allodole… », « Non ne capisco niente di queste cose… »
Avevano paura di parlare? Possibile…
Questa faccenda stava diventando più torbida di un whisky non filtrato, quindi decisi di andare a fondo della questione e iniziai a consultare tutti i dossier degli anni precedenti…
A quanto sembrava l’agricoltura biologica poteva annoverare tra le sue influenze Masanobu Fukuoka (corrente spirituale) , Rudolf Steiner (corrente esoterica) e Albert Howard (corrente scientifica) ma, in concreto, il concetto di Agricoltura Biologica iniziò a diffondersi solo dopo la Seconda Guerra Mondiale in reazione all’agricoltura chimica e produttiva che si stava imponendo in Europa (1).
I gruppi appartenenti a questa Resistenza Alimentare erano pieni di insurrezionalisti che volevano continuare a lavorare e mangiare come i loro genitori ed i loro nonni prima di loro, e così via fino alla notte dei tempi.
Una prima rivelazione mi perforò il cervello come il proiettile di una Magnum 357: l‘agricoltura chimica è riuscita ad usurpare il nome di “agricoltura convenzionale” quando invece dovrebbe esser piuttosto un’agricoltura alternativa, nuova, i cui effetti sul lungo termine sono incalcolabili!
Niente da dire, sicuramente le varie lobbies guidate da Dupont, Bayer, Monsanto e consorzi vari avevano colpito nel segno, ingannando un po’ chiunque. Lo stesso Bruno Le Maire, all’epoca ministro francese dell’agricoltura, partecipò alla carnevalata quando dichiarò nel 2011 (2):
« Non facciamo credere ai Francesi che potranno riuscire coltivare mele, pere e frutta senza l’utilizzo dei pesticidi. Sono sempre esistiti ed esisteranno per sempre».
Se si fosse presa questa dichiarazione sul serio, avremmo dovuto datare l’apparizione di mele e pere all’anno 1960. C’è da dire che il settore agro-alimentare è il più remunerativo in Francia, per questo i politici hanno sempre evitato di prendere il toro per le corna (3).
Ma torniamo alla nostra storia. All’inizio i fan del bio non erano borghesotti perbenisti o ecologisti integralisti. Anzi, tutto il contrario: erano dei campagnoli un po’ conservatori, delle persone semplici… Tale sete di normalità portò negli anni ’50 alla creazione delle prime associazioni di consumatori. E da lì le iniziative si sono moltiplicate ma il principio di base è rimasto lo stesso: stop ai prodotti chimici! I vari governi hanno quindi deciso di regolare un po’ il settore e hanno creato i labels bio ufficiali, con tanto di simpatici loghi, e nominato organismi certificatori dal delicato compito di convalidare prodotti bio a prodotti non bio.
Ma allora il bio è un affare di Stato?
Non è così semplice: secondo le mie fonti i capi erano cambiati in tutta discrezione negli ultimi tempi. Ormai la gestione dei marchi bio dipendeva dall’Unione Europea: è li che si stabiliscono le regole del gioco.
La mia inchiesta mi stava portando lontano. Presi impermeabile e cappello di feltro e saltai sul primo treno per Bruxelles: la verità era ormai a un tiro di schioppo.
Attesi all’angolo di Manneken-Pis con una Winston in bocca, rintanato dentro il mio impermeabile beige ingiallito dagli anni. Il mio contatto mi raggiunse sotto il palazzo della Commissione Europea, all’angolo tra Rue Charlemagne e Rue de la Loi e mi aprì la porta del retro, facendomi infiltrare dalle cucine. Finalmente avevo trovato il mio obbiettivo. I pezzi grossi si trovavano all’interno della Commissione permanente per l’Agricoltura Biologica: sono loro che prendono tutte le decisioni (4).
Si tratta di 27 gentiluomini che si riuniscono 6 volte l’anno, ciascuno dei quali rappresenta uno Stato dell’Unione Europea. Ognuno di loro propone dei decreti in collaborazione con le altre parti interessate (sindacati agricoli, ONG, ecc) e discutono, votando per la maggioranza.
Nessuna di queste riunioni, ovviamente, rimane segreta: infatti i rendiconti completi di ognuna vengono resi pubblici.
Una volta che un regolamento viene approvato, gli Stati membri della commissione si impegnano ad applicarlo. E rieccoci al carosello degli stati, degli agricoltori e degli organismi certificatori a cui si aggiunge inevitabilmente la Commissione Europea che chiede puntualmente rapporti perché possa supervisionare la gestione del marchio a livello continentale.
Questa omogenizzazione europea è stata finalizzata nel 2009: i marchi nazionali sono stati cancellati e rimpiazzati con il logo Bio Europeo (la foglia su sfondo verde).
La transizione non è stata apprezzata all’unanimità. In molti paesi ha rappresentato un progresso, ma in molti altri queste nuove specifiche tecniche sono molto meno esigenti di quelle passate.
Ed ecco dunque che i contestatari si sono risvegliati, rivendicando con forza delle specifiche tecniche più severe e complete, che integrino all’interno anche i valori umani e sociali.
Nel viaggio di ritorno il mio sguardo si perse nel vuoto, lontano, tra i campi… La pioggia battente sui vetri… Tutti i fili si unirono nella mia testa.
Compresi, alla fine, che l’agricoltura biologica esisteva da sempre, ma questa era la prima volta nella storia in cui la sua esistenza si doveva giustificare, proteggere e aiutare a guadagnare la giusta visibilità.
Percorrendo questa strada il viaggio sarà lungo e i dibattiti numerosi. Ma prima o poi il futuro diventerà bio.
Caso chiuso.
(1) Philippe Baqué, « Florissante industrie de l’agriculture biologique », Le Monde Diplomatique, Febbraio 2011 ; http://www.monde-diplomatique.fr/2011/02/BAQUE/20129
(2) Marie-Monique Robin, « Le plus gros mensonge proféré par l’industrie chimique », Huffington Post, 16 Novembre 2012 ; http://www.huffingtonpost.fr/mariemonique-robin/agriculture-biologique-pesticides-mensonges_b_1967202.html
(3) Fabrice Nicolino, « Lobby agroalimentaire : pourquoi ils tiennent le manche », Charlie Hebdo, 22 Aprile 2013 ; http://www.charliehebdo.fr/news/hors-serie-malbouffe-lobby-agroalimentaire-824.html
(4) Sito della Fédération Nationale d’Agriculture Biologique (pagina « Réglementation ») ; http://www.fnab.org/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=8&Itemid=17
Questa è una traduzione dell’articolo scritto da Benjamin Stock sul blog de La Ruche Que Dit Oui!
Potete trovare il post originale cliccando qui
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ironico ma spassionato questo articolo! se ti va di passare da me, mi occupo di prodotti bio ed ho scritto anche io un articolo al riguardo sul blog. ti aspetto anche su fb ora sono una tua nuova fan
Ciao Daniela! Prima di tutto grazie per i complimenti e abbiamo visto che sei diventata nostra fan, speriamo di averti sempre tra i nostri lettori e sicuramente andremo a vedere il tuo lavoro, chissà, potrebbe nascere una bella collaborazione!
A presto!